giovedì 26 gennaio 2017

La terra stava urlando

Una fossa comune di Bergen-Belsen

Ti sei sentito chiamare dai morti – ma una volta sola, una volta in tutti gli anni da quando sei vivo.
 Non sei uno che vede le cose che non ci sono, e anche se ciò che vedi spesso ti ha confuso non vai soggetto ad allucinazioni o alterazioni fantastiche della realtà. Lo stesso vale per i tuoi orecchi. Di quando in quando, mentre stai facendo una delle tue passeggiate in città, pensi di sentire qualcuno che ti chiama, pensi di sentire la voce di tua moglie o di tua figlia o di tuo figlio che chiamano il tuo nome dall’altro lato della strada, ma quando ti volti per cercarli è sempre qualcun altro che sta dicendo Paul o papà o pa’ . Vent’anni fa, però, forse venticinque, in circostanze ben lontane dalla quotidianità della tua vita, sperimentasti un’allucinazione uditiva che continua a sconcertarti per la sua vivezza e la sua potenza, per il volume delle voci che udisti, anche se il coro dei morti urlò dentro di te per non piú di cinque o dieci secondi. Eri in Germania, stavi passando un fine settimana ad Amburgo, e una domenica mattina il tuo amico Michael Naumann, che era anche il tuo editore tedesco, ti propose di andare a visitare Bergen-Belsen, o meglio il luogo dove un tempo sorgeva Bergen-Belsen. Accettasti anche se una parte di te recalcitrava, e ricordi il viaggio in auto sulla autobahn semideserta in quell’uggiosa domenica mattina, un cielo bianco-grigio sospeso su chilometri e chilometri di territorio piatto, la vista di una macchina che si era scontrata con un albero sul ciglio della strada e il cadavere del conducente steso sull’erba, un corpo cosí inerte e disarticolato che capisti all’istante che l’uomo era morto, e tu lí, seduto nella macchina a pensare ad Anna Frank e a sua sorella Margot, entrambe morte a Bergen-Belsen insieme a decine di migliaia di altri, alle molte migliaia di altri che vi morirono di tifo e di inedia, di percosse date a caso, o ammazzati. Mentre sedevi di fianco al guidatore nella tua mente ripassarono le decine di film e documentari sui campi di sterminio che avevi visto, e a mano a mano che con Michael vi avvicinavate alla meta ti sentivi sempre piú ansioso e chiuso in te stesso. Del campo in sé non era rimasto niente. Le costruzioni erano state abbattute, le baracche demolite e portate via, i recinti di filo spinato scomparsi, e adesso c’era solo un piccolo museo, un edificio a un solo piano, pieno di fotografie formato poster in bianco e nero corredate di didascalie, un luogo tetro, un luogo orrendo, ma cosí denudato e asettico che facevi fatica a immaginare come potesse essere stato durante la guerra. Non sentivi la presenza dei morti, l’orrore di tante migliaia di persone stipate in quel villaggio da incubo circondato di filo spinato, e mentre visitavi il museo con Michael (se ben ricordi, eravate gli unici presenti), avresti voluto che il campo fosse rimasto intatto per permettere al mondo di vedere che aspetto aveva avuto l’architettura della barbarie. Poi usciste nell’area un tempo occupata dal campo di sterminio, che però adesso era un prato verde, una distesa di erba bellissima e curata che si estendeva in ogni direzione per centinaia di metri, e se non fosse stato per i vari cartelli piantati a indicare dove un tempo si trovavano le baracche, dove un tempo si trovavano certi edifici, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che cos’era successo lí qualche decennio prima. Poi arrivaste a una zona d’erba un po’ piú alta – di tre o quattro centimetri rispetto al resto del campo – un perfetto triangolo di circa sei metri per dieci, grande come una stanza ampia, e in un angolo del terreno c’era un cartello con la scritta: Qui riposano i corpi di 50 000 soldati russi . Eri in piedi sopra la tomba di cinquantamila uomini. Sembrava impossibile che tanti corpi potessero stare in uno spazio cosí piccolo, e quando provasti a immaginare quei corpi sotto di te, il groviglio dei cadaveri di cinquantamila giovani stipati in quella che doveva essere stata la piú profonda di tutte le buche, cominciasti ad avere le vertigini al pensiero di tanta morte, tanta morte concentrata in un pezzo di terra cosí piccolo, e un attimo dopo sentisti le grida, un’onda formidabile di voci si alzò dalla terra sotto di te, e sentisti le ossa dei morti urlare per l’angoscia, urlare di dolore, urlare in una cascata di tormento rombante a squarciagola da spaccare i timpani. La terra stava urlando . 
Li sentisti per cinque o dieci secondi, e poi tacquero. 

10 commenti:

  1. There was thunder
    There was lightning
    Then the stars went out
    And the moon fell from the sky
    It rained mackerel
    It rained trout
    And the great day of wrath has come
    And here's mud in your big red eye
    The poker's in the fire
    And the locusts take the sky
    And the earth died screaming
    While I lay dreaming of you.(Earth Died Screaming
    Tom Waits, dall'album Bone Machine)

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  2. E' così. E nessuno potrà mai spiegarci come la Germania tutta abbia assecondato la follia omicida e insensata di un uomo.

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  3. Nel leggere questo brano, ho provato la stessa sensazione provata nel leggere alcune pagine dell'opera memorialistica di Primo Levi "Se questo è un uomo": brividi incontrollabili, procurati dal raccapriccio nel pensare di cosa sono stati capaci degli esseri umani, in un'infausta epoca della storia dell'umanità.

    Un buon brano per "non dimenticare", in un'epoca nella quale in molti non ricordano o, peggio ancora, non sanno.

    Ciao, buon pomeriggio.

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  4. Il titolo dice tutto. Faccio davvero fatica a continuare.

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    1. ....non leggerlo allora . Credo che tu non abbia bisogno di ricordare . Lo avrai stampato nel cervello , come me , George, Gus,Bartolo e tutti quelli che avranno magari letto ma non commentato ..ciao

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